Julián

 

Stetti in giro tutta la mattina continuando a cercare informazioni sugli amici di Fred e Karin, e tutto ciò che vedevo mi sembrava un sogno, o meglio, un incubo. Salva aveva scoperto un covo di nazisti, nazisti decrepiti, ma pur sempre nazisti. Mi chiedevo perché non mi avesse lasciato le informazioni che aveva raccolto presso la residenza in cui aveva passato gli ultimi mesi di vita. Forse ad attendermi all’ospizio c’erano una scatola o una valigetta, una busta o qualcosa d’altro. Quando mi aveva scritto doveva già sapere quanti erano, chi erano, che tipo di vita conducevano e cosa stavano pianificando, a parte il gusto di torturare e uccidere che li accomunava tutti. Mi aveva parlato dell’eterna giovinezza e sicuramente sapeva molte altre cose, perciò non appena ne avessi avuto l’occasione avrei fatto un salto all’ospizio. Prima però dovevo riposarmi un po’. Mangiare e riposare.

Andai al solito bar e ordinai un menu. Ormai il cameriere mi conosceva e mi aveva preso in simpatia, per cui quando mi vedeva entrare usciva dal bancone portando piatto e posate con una mano e facendo sventolare una tovaglia di carta con l’altra e, se era libero, sistemava tutto su un tavolo in fondo che guardava verso la porta. Era una cosa che non potevo evitare, uno dei retaggi dopo tanti anni di lavoro al Centro. Non sedermi mai dando le spalle alla porta, girarmi di scatto per strada se qualcuno camminava troppo vicino a me e coprire il numero che mi avevano tatuato sul braccio al campo, anche d’estate. A volte, quando mia figlia era piccola e andavamo in spiaggia, ci mettevo su una benda o un cerotto perché gli altri bambini non chiedessero che cos’era. Non mi piaceva che mi compatissero o mi considerassero diverso: lo ero già stato fin troppo. D’altro canto, non volevo rendere la vita amara a quei bambini, né tantomeno ingannarli.

I bambini notano subito le cose più importanti, per quanto insignificanti possano apparire a prima vista. Ci fu un tempo in cui mia figlia era ossessionata dalla sabbia del cortile della scuola: metteva quella più dorata in una bustina di plastica e me la dava quando tornava a casa. Conservavo ancora alcune di quelle bustine, e me n’ero portata una dietro come talismano. Fortunatamente la tenevo sempre con me nella tasca della giacca e quando erano venuti a frugare in camera non avevano potuto portarmela via.

Non ci concentriamo mai su ciò che è più evidente, e il segreto del mondo, la rivelazione, sta sicuramente in ciò che è più evidente, nei granelli di sabbia dorata dal sole. Mia figlia mi aveva detto che ormai i numeri sul braccio si potevano cancellare con il laser, ma io le avevo risposto che una cosa era nasconderli e un’altra eliminarli. Quel numero era parte di me: la mia vita non era più stata la stessa dopo che me lo avevano tatuato. Se lo avessi fatto sparire mi sarei ingannato da solo. E per cosa, poi? Il mio futuro era lì, quello che avrei fatto adesso sarebbe stato ciò che rimaneva del futuro.

Ero passato dalle omelette dei primi giorni al menu completo. Il prezzo era quasi lo stesso, e in quel modo ero a posto per tutto il giorno; il cameriere badava che non salassero i piatti e mi consigliava quelli più adatti ai miei gusti. A volte gli lasciavo anche una mancia decente. Nel bar sapevano che alloggiavo al Costa Azul, mi dicevano che facevo bene ad andare a mangiare lì e non aggiungevano altro, non volevano guai: facevo bene a non mangiare in albergo punto e basta.

In albergo non ero a mio agio, non mi sentivo come al bar. E il colmo fu quando tornai dopo pranzo per fare un riposino e mettere in ordine gli appunti che avevo preso in biblioteca, in comune, all’anagrafe, al catasto. Una scoperta tirava l’altra, e quello che stava emergendo chiaramente era che alcuni nazisti vivevano in quella zona dagli anni Quaranta e Cinquanta. Con il tempo se ne erano aggiunti altri chiamati da quelli che già erano venuti e che molti di loro se ne erano andati o avevo finto di farlo. Avevano vissuto una vita dorata, avevano anche messo in piedi imprese molto floride, si erano dedicati alla compravendita immobiliare e avevano lavorato nel settore alberghiero; uno di loro aveva persino aperto un ambulatorio ginecologico privato. Non sapevo esattamente in che anno Salva si fosse stabilito lì, ma il bagaglio di informazioni che aveva accumulato doveva essere immenso. Dovette provare un terribile senso di impotenza quando capì che sarebbe morto prima di molti di loro. Non credeva in Dio e nell’aldilà, come me del resto: eravamo stati per tutta la vita repubblicani atei. Dopo quello che avevamo visto negavamo l’esistenza di qualunque entità potesse preoccuparsi di noi. Eppure, mi sarebbe piaciuto che lo avessero seppellito per potergli portare dei fiori al cimitero.

Come dicevo, fu il colmo. Per arrivare agli ascensori non c’era altro modo che passare dalla reception, e lì c’era l’investigatore dell’albergo con un mazzo di fiori in mano. Conoscevano le mie abitudini e i miei orari: sono cose della vecchiaia, alla quale è impossibile sopravvivere senza abitudini e rituali. Da giovane non mi sarebbe mai mai accaduto, fatto sta che Tony era lì e mi porgeva un mazzo di fiori.

«E questi?» chiesi.

«Buon compleanno», disse Tony.

Stavo osservando i fiori e continuai a farlo per non tradirmi: perché mi stava dicendo una cosa del genere?

«Grazie», risposi affettando una gioia che non confermava ma non smentiva nemmeno quell’informazione. «Non vi sfugge niente.»

Tony sapeva che la cosa puzzava, e anch’io lo sapevo; non disse niente, si limitò a guardarmi. Fu Roberto, il portiere con la voglia sulla guancia, che non riuscì a sopportare la tensione.

«Ci dispiace, signor Julián, non siamo stati noi. Li ha portati una ragazza», disse guardandomi fisso negli occhi perché capissi a chi si riferiva.

Rimasero entrambi in attesa di una spiegazione.

«Davvero gentile. Ecco perché non mi mancava il mio paese: perché qui la gente è di una cortesia a prova di bomba», commentai cercando di allontanarmi verso gli ascensori con il mazzo di fiori in mano.

Nonostante fossi sorpreso e un po’ appesantito dallo squisito pasticcio di carne e patate del bar, ero ancora abbastanza lucido da cercare nella carta trasparente il biglietto che accompagna sempre un mazzo di fiori e grazie al quale evidentemente quel pettegolo di Tony era venuto a sapere del mio falso compleanno.

«Non hanno lasciato un biglietto?»

Roberto si precipitò a darmelo, non voleva finire nei guai. A Tony invece non avrebbe creato problemi tenerselo: era nato e cresciuto per questo.

Tirai fuori il biglietto dalla busta e gli diedi un’occhiata sommaria. L’avrei letto con calma nella mia stanza.

«Non dirmi che lo hai letto», dissi a Tony guardandolo fisso: conoscevo gli animali come lui, e sapevo che l’unica cosa da fare era fargli capire che non avevo paura di lui.

«La busta era aperta», ribatté senza smettere di guardarmi con i suoi occhi da pesce lesso. «Lo facciamo per motivi di sicurezza. Non possiamo receptionare niente di strano senza garanzie.»

Receptionare? Ma come parla!

«E un mazzo di fiori è una cosa strana?»

«Se fosse al posto mio», disse Tony, «non le sembrerebbe strano che una ragazza giovane che non ha esattamente l’aspetto di una suora le portasse un mazzo di fiori? Potrebbe trattarsi di un atto terroristico o di una minaccia. Sono responsabile di tutto quello che succede qui.»

«Cerchi di capire», intervenne Roberto. «Se avessimo saputo chi è quella ragazza, se avessimo saputo che lei la conosce, non ci sarebbe sembrato tanto strano che si presentasse qui con un mazzo di fiori. Dopo quel che è successo nella sua stanza siamo preoccupati per lei.»

«Non è una terrorista e, come avrete visto dal biglietto, non mi sta neppure minacciando», dissi, rendendomi conto che era meglio dar loro ragione. «È una ragazza normalissima che ho soccorso in spiaggia quando ha avuto un malore. Devo averle detto che in questi giorni sarebbe stato il mio compleanno... È stato un modo carino per ringraziarmi.»

Finalmente riuscii a entrare in ascensore. In una situazione normale un altro non si sarebbe lasciato sottoporre a un interrogatorio. In una situazione normale a quei due non sarebbe neppure venuto in mente di ficcare il naso nei fatti miei. Ma sapevamo tutti che eravamo nel bel mezzo di una guerra silenziosa. Non mi piaceva che avessero visto Sandra, non mi piaceva per niente. Era la terza volta che veniva in albergo: avrei dovuto dirle di stare più attenta, non mi fidavo di Tony. In fin dei conti eravamo in un paese, e in un paese si conoscono tutti, passano il tempo a fare due più due e alla fine ricollegano tutti.

Misi i fiori in un vaso poggiato sul tavolino, come se si desse per scontato che in una suite prima o poi debba arrivare un mazzo di fiori. Guardai verso il bagno e poi guardai il biglietto. Che cosa dovevo fare prima, leggere il biglietto o mettere l’acqua nel vaso? Mi tolsi le scarpe con questo dubbio in testa, ma siccome me le ero tolte seduto sul bordo del letto, mi stesi e allungai la mano per prendere la piccola busta.

Lessi attentamente. Lessi le parole di Sandra varie volte. Sembrava una poesia, ma era un messaggio in piena regola. Parlava di boccioli, di giovinezza tra i boccioli. Con un balzo mi alzai dal letto e presi il mazzo. Ruppi il nastro strettissimo con il cavatappi che nelle suite sembra sempre essere in attesa di una bottiglia di vino. Mi ci volle un po’ per farlo. Non sembrava che fosse stato manomesso: ringraziando la fortuna, la fortuna che Tony non fosse così perspicace come credeva, sarei stato il primo a vedere cosa c’era fra quei fiori.

Dentro un foglio di cellofan c’era un altro pacchetto, e per poco il suo contenuto non mi punse. Dio santo! Erano le siringhe usa e getta con cui Karin doveva iniettarsi quel liquido misterioso, quell’oro bianco, perché se non fosse stato misterioso si sarebbe potuto acquistare in qualsiasi farmacia.

In un laboratorio avrebbero potuto estrarne un campione e analizzarlo. Sarei sceso alla cabina telefonica dell’albergo e avrei cercato sulle pagine gialle l’indirizzo di qualche laboratorio di analisi. Ne avrei chiamati un po’ per vedere se ne trovavo qualcuno aperto.

E feci proprio così, ma prima chiusi gli occhi venti minuti e cercai di rilassarmi e di riposare, perché non aveva senso forzare il motore fino a non servire più a niente. Venti minuti non avrebbero cambiato le cose. Nella hall dell’albergo, accanto ai bagni, c’era un telefono con un paravento di legno di mogano sui due lati: presi l’elenco e iniziai a chiamare i tre laboratori che trovai. Erano aperti al pubblico fino a mezzogiorno, e solo in uno mi rispose una persona e non una segreteria telefonica. Dissi che non si trattava di analisi del sangue né delle urine, ma di un’altra sostanza che non era nel mio corpo. Rispose che analizzavano ogni genere di fluido organico e inorganico e mi fissò un appuntamento per l’indomani alle nove.

Adesso sì che avevo un po’ di tempo per rivedere i miei appunti prima di andare all’appuntamento con Sandra. Dopo Raquel era la donna più straordinaria e coraggiosa che avessi mai conosciuto. Mia figlia era un discorso a parte. Mia figlia non la paragonavo mai a nessuno, non sarei stato obiettivo.

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